II.

Tre liriche del Carducci

Nel saggio che apre questo volume ho delineato una sintetica storia della poesia carducciana. Qui presento un esame particolare di tre liriche che in quella linea hanno avuto singolare rilievo: una, Ballata dolorosa, soprattutto come sintomatico approfondimento di un tema che a me pare fondamentale e centrale nella intuizione lirica carducciana, nel primo e piú originale sentimento carducciano dell’esistenza, la seconda, Nevicata, come uno dei risultati piú notevoli, nelle condizioni propizie della brevità e della concentrazione, di quella poesia in una zona di tarda maturità del suo sviluppo, nel quale (nella sua particolare situazione entro la cultura poetica del secondo Ottocento) la terza, Visione, porta l’indicazione di certe tendenze e possibilità della poetica e della poesia carducciana in direzione di una piú nuova forma di evocazione lirica e musicale. Tanto queste tre interpretazioni quanto la linea storica affermata nel saggio che precede, sono nate da un nuovo avvicinamento alla personalità poetica del Carducci e ai suoi motivi e momenti piú validi, avvicinamento che mi pare significativo soprattutto per una generazione, come la mia, formatasi entro un sostanziale distacco (quando non fu piena opposizione) dal Carducci, specie nella sua immagine (polemica contro la nuova poesia da noi piú amata) di compatta sanità e robustezza classica senza screpolature e incertezze o, peggio, in quella del vate e della sua eloquenza rumorosa, che finirono per nasconderci in gran parte le zone piú sensibili e autentiche di quella personalità, la sua vibrazione piú intensa ed intima. Ora mi pare che ad un esame piú aperto e spregiudicato, che non si nasconda i limiti e i pericoli costituzionali di quel poeta (come soprattutto l’espansione troppo facile ed eloquente, e viceversa il compiacimento dell’abilità e versatilità letteraria), ma che a questi non si fermi e che comunque li consideri nella dinamica di uno sviluppo interno e collegato alle condizioni di cultura e di storia entro cui si attuò, sia possibile un nuovo recupero di qualità e realizzazioni poetiche nella vasta e disuguale produzione carducciana, sia possibile ricostruire una immagine piú complessa e accettabile di un poeta tanto discusso. A tale recupero, a tale immagine mi sembra si possa giungere soprattutto partendo dalla considerazione di alcuni punti ed elementi piú sensibili, sofferti, intimamente evocati del suo animo poetico, come appunto qui ho cercato di fare attraverso la particolare indicazione del significato di alcune poesie.

1.

NEVICATA

Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi,

suoni di vita piú non salgon da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,

non d’amor la canzon ilare e di gioventú.

Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore

gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dí.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici

spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati indomito cuore –

giú al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

Dirò subito che questa «barbara» è per me uno dei risultati piú interi ed intensi della poesia del Carducci, una sintesi equilibrata ed energica delle sue tendenze piú personali, una prova notevole delle sue possibilità di concentrazione lirica e di sicura realizzazione espressiva, della sua matura ricchezza di vibrazione e di suggestione sentimentale e fantastica tutta dominata in un’articolazione scandita e continua, in un quadro compatto, senza incrinature e cadute di tono.

Proprio in tal senso è una risposta positiva ai nostri dubbi, alla nostra insoddisfazione di fronte ai pericoli di diluizione dei nuclei lirici, di cadute e sbalzi di tono cosí frequenti nel Carducci anche in poesie ispirate che tante volte chiedono se non tagli antologici certo sorvoli rapidi su parti improvvisamente scadenti ed approssimative, in cui la tensione poetica autentica vien surrogata dai sobbalzi del declamato o da confidenze troppo discorsive o da compiacimenti illustrativi agevolati dalla tentazione della varietà e da certi conati di una poetica spesso poco sicura fra tecnicismo aristocratico e prezioso, facilità parlante e i piú pesanti «doveri» e la pericolosa vocazione costituzionale del vaticinio civile e patriottico.

Qui invece (e del resto la brevità è propizia in generale al Carducci, malgrado la sua tendenza all’affresco e all’opera complessa in cui piú raramente la sua forza regge all’impegno) la concentrazione è massima, la intuizione centrale si è svolta intera, ha riempito tutto il quadro sino ai suoi margini estremi, senza dispersioni, senza sbavature sentimentali, senza pose di outrance sentimentale e verbale, pur essendo ricca di una dolente sensibilità, di un impeto che tende, entro una costruzione squadrata e netta, ogni parola, ogni movimento di ritmo, ogni immagine con la pienezza e la sicurezza di una poesia che trova un consolidamento espressivo coerente ed unitario.

Certo, sia ben chiaro, sempre nei limiti di profondità di un poeta che mi pare rischioso ed errato mettere a paragone con quei maggiori poeti lontani o vicini (e sian questi Foscolo o Leopardi), da cui lo distacca (ed egli ne fu a suo modo cosciente se parlando della sua «religione per i grandi poeti», per «i grandi astri che ridono eterni», se ne dichiarava dolorosamente lontano quanto a propria forza creativa[1]) una minore pienezza lirica centrale, una diversa profondità della parola che sale da zone interiori piú circoscritte e meno complesse, realizzandosi in una minore assolutezza espressiva, in uno stile che mantiene spesso qualcosa di piú greve e pesante, di meno limpido e puro, mentre la sua stessa serietà artistica e tecnica non può vincere spesso centrali incertezze, oscillazioni fra l’approssimativo e il prezioso. Ma, affermati francamente questi limiti costituzionali, mi pare che in questo componimento si possa cogliere uno dei momenti piú intensi e realizzati delle vere possibilità poetiche carducciane.

In questa poesia, in questo eccezionale momento di riepilogo interiore da parte di un poeta che ha il pieno possesso di tutti i suoi mezzi e motivi lirici senza piú distinzione fra ispirazione e tecnica, il Carducci rivedeva liricamente entro di sé, in un’attiva memoria dolente e vigorosa, lo svolgimento piú profondo e l’approdo virile funereo della sua tormentata esperienza vitale, tesa fra orgogliosi impeti di affermazione, di possesso della realtà, di ideali umanistico-naturalistici, di intero contatto con gli uomini, condotti fino all’espansione euforica del Canto dell’amore, e il sentimento della difficoltà e fragilità di quel possesso, della resistenza di una realtà umana opaca e deludente. Sentimento quest’ultimo che lo aveva portato, proprio nel pieno della passione per Lidia, a immergersi cupamente nel tedio (parola e sentimento ben suo, al di là di certe forzature di posa romantica, corrispondente ad un polo del suo fondamentale contrasto di temperamento e di intuizione lirica della vita), a rifugiarsi fra i morti che non deludono e che non tradiscono, a contemplare la tomba non solo con l’orrore affascinato della sua condizione di totale esclusione[2], ma proprio nel suo fascino di rifugio, di suprema e dolorosa sicurezza, di risposta sdegnosa ed eroica alla mediocrità e alla viltà, agli inganni del presente e degli uomini impari all’altezza del sogno di una umanità intera e poetica, di quella schiatta «alta, gentile e pura» cui il Carducci aspirava ardentemente già all’aprirsi della sua maturità umana e poetica[3].

Di questa tensione alla morte e al rifugio tra i morti si era fatto espressione concitata e sintetica il grido «il mio cuore è coi morti» che, nel ’74, aveva dominato il ritornello doloroso di Brindisi funebre («beviam, beviamo a i morti / con essi sta il mio cuor»), e aveva risuonato in tante lettere di anni successivi[4] con la sicurezza di un leitmotiv profondamente consolidato in una precisa sentenza personale e poetica. E questa aveva trovato la sua precisa formulazione fra stimolo di esperienze dolorose e il contatto propizio con un testo di Hölderlin letto e tradotto parzialmente nell’agosto-settembre 1874: quella poesia Griechenland sul cui finale il Carducci tornò ancora nel 1903 variandone leggermente la traduzione con la mano mal certa in una delle ultime patetiche sue prove di scrittura a lapis[5], tanto quei versi gli erano cari, tanto egli aveva sentito la loro importanza nella chiarificazione di un suo sentimento che chiedeva e non trovava ancor bene espressione.

Quel finale di Griechenland infatti lo aveva aiutato, fra lettura e traduzione, a definire questo suo ardente e cupo desiderio della morte come rifugio dolente e consolatore e a precisarne le direzioni essenziali di una impetuosa discesa alla casa dei morti con quel «giú»[6] cosí carico di tensione e di brama complicata dal sentimento fisico della tomba e dell’Ade che il Carducci sentiva soprattutto come sotterraneo, non celeste, indissolubilmente legato alla sua sensibilità tutta terrena ed umana:

Là dove il mirto e un miglior sol corona

Anacreonte e Alceo, là giú vo’ gir!

Con i santi là giú di Maratona

ne l’esil casa d’Hade io vo’ dormir!

La mia lacrima estrema, Ellade bella,

scorra e risuoni il canto ultimo a te!

Alza le forci omai, fatal sorella,

perché tutto co’ morti il mio cuor è.[7]

Poi, proprio nel 1880, la lettura e traduzione di un altro brano di Hölderlin (poeta-guida di questo motivo nella propizia consonanza di una posizione neoclassico-romantica di amore della Grecia e di nostalgia di un passato eroico e luminoso) venne a rinforzare, in un periodo di meditazione cimiteriale cosí intenso (aperto nel ’79 dall’elegia Fuori alla Certosa di Bologna[8]), la suggestione, il fascino della discesa fra i morti sempre piú intensificato da un sentimento di precoce vecchiaia, di crescente solitudine e distacco, fra la scomparsa e la perdita di vecchi e giovani amici e la fine dell’amore per Lidia, prima ancora della sua morte.

Era un brano della poesia Der Tod fürs Vaterland tradotto in prosa e culminante nella dichiarazione ai morti che piú direttamente conduce alla situazione fondamentale di Nevicata («Zu euch / Ihr Teuern! komm’ ich, die mich leben / lehrten und sterben, zu euch hinunter!», «A voi, o cari, io vengo, che ad amare m’insegnaste e a morire, a voi là giú»[9]), mentre nella contemporanea traduzione di An die Parzen, nel desiderio estremo della poesia e della morte, si staccano il replicato «là giú» e parole che ritorneranno nel finale di Nevicata: «o silenzio del mondo delle ombre»[10].

Quando il 29 gennaio 1881, sullo sfondo sollecitante della cupa giornata invernale e nevosa (già l’anno precedente l’elegia Ave. In morte di G. P. si era aperta sullo sfondo di una giornata di neve: «Or che le nevi premono, / lenzuol funereo, le terre e gli animi, / e de la vita il fremito / fioco per l’aura vernal disperdesi»[11]), il Carducci scrisse la prima stesura di Nevicata, tutti quegli spunti e avvii del motivo che fermentava da tempo nel suo animo e nella sua fantasia, quelle parole e immagini già provate e incubate nelle lettere, nelle traduzioni da Hölderlin, nelle poesie precedenti (e con quelle altre parole e ritmi piú suoi ed echi di altri poeti sentiti come congeniali alla situazione o ad elementi del suo svolgimento[12]), vennero a raccogliersi entro una centrale intuizione, cosí diversa dalle forme di uno sfogo immediato e diaristico. E si composero, presero spazio poetico in un quadro in cui la situazione immediata e precisa (l’interno dello studio del poeta, la finestra dai vetri appannati, lo sguardo al cielo nevoso, l’attenzione al silenzio che nega e recupera i suoni consueti, stimolata dal tocco isolato delle ore della torre di piazza) si liricizza in rapporto all’espressione del motivo a lungo meditato e si dispone a prepararlo, a creargli suggestione e realtà di scena.

Una scena che, nella energica simmetria del componimento, occupa con la sua piú diretta espressione tutta la prima metà della poesia sino al trapasso ad una scena piú interiore, precisato nel verso 6 in cui il suono delle ore svolge la sua allusione piú segreta, il suo intimo riferimento al misterioso sospiro di un mondo perduto e lontano dalla vita consueta, alla voce prima dei morti.

E in questa prima scena che crea l’atmosfera realistico-suggestiva e conduce dall’esterno all’interno, sulla guida di una sensibilissima disposizione progressiva pur nell’apparente giustapporsi staccato e pausato di impressioni a sé stanti, e sul filo unitario di un continuo riferimento all’attenzione centrale del poeta (prima lo sguardo al cielo cinereo e alla neve che lenta fiocca, poi la sensazione del silenzio che abolisce, ricordandoli e trasferendoli in una zona di nostalgia implicita e sommessa, i suoni del giorno consueto, poi l’attutito vibrare dell’unico suono che resiste e che nella sua unicità suggerisce l’avvio piú deciso allo sviluppo della interpretazione piú personale e poetica di tutte queste sensazioni e di questa dimensione insolita fra realtà e sogno interiore), la realizzazione di un cosí eccezionale e perfetto equilibrio in tensione raccoglie, come già dicevo, parole, immagini, ritmi piú veramente carducciani nella loro funzione piú matura e originale.

Si pensi per le parole-colore e suono al tematico «cinereo» (uno dei colori piú tipici delle gamme carducciane nella loro bipartita tensione e nei loro impasti a contrasto), al «roco», che nell’eccellente incontro ritmico del verso 5 («roche per l’aere le ore») riprende la prova di Mors piú pesantemente onomatopeica («e solo il rivo roco s’ode gemere»). O si pensi all’immagine del silenzio della giornata nevosa (Ave e alcune aperture di lettere[13]), o, nella singolare e non piú ripresa adozione di un particolare distico elegiaco[14], all’impasto di ritmo solenne e rapido, scandito e vibrante, di predominante lentezza energica e pensosa con esiti di squillo attutito e di suono cupo nei finali dei distici mediante un ardito impiego (non divertimento prezioso, ma funzione di poesia) delle cinque vocali accentate in fine di verso: quasi con una utilizzazione superiore delle tendenze di ritmo e di suono di Rime nuove e di Odi barbare sulla trama dominante delle seconde.

Poi, dopo il primo distico in cui piú forte domina il silenzio e lo squallore della giornata invernale, un movimento piú animato cresce nel secondo distico fino al chiaro recupero nostalgico, pur nella negazione, di freschi elementi vitali con il rilievo lieto di quell’«ilare» (vibrante incontro di immagine e suono) e lo squillo rapido del finale «e di gioventú». Mentre il ritmo piú lento, monotono, scuro del terzo distico trova un esito piú complesso nella direzione di uno sviluppo di distanza suggestiva, di suono che apre il passaggio ad una zona misteriosa, spirituale, approfondita dalla sua stessa misteriosa lontananza.

Proprio sull’avvio del verso 6 (dove la componente del singolare spiritualismo carducciano non prevarica in vaporosità, come troppo spesso succede nello sviluppo senile, lievito e pericolo di Rime e ritmi, fra gli esiti alti dell’Elegia del Monte Spluga e l’inconcludente misticismo della Chiesa di Polenta), la poesia si svolge nella sua parte piú intensa, piú lirica: quella a cui il Carducci da tempo soprattutto pensava, ma che aveva bisogno, per superare il grido autobiografico, la notazione epistolare-diaristica, appunto di tutta la mitizzazione scenica, del quadro realistico-fantastico entro cui l’appello ai morti, l’impeto della discesa fra loro trova la forza di trasfigurarsi fantasticamente, anche se nei modi energicamente compendiosi e concentrati che son propri del migliore Carducci.

Con un potente passaggio, la mitizzazione dei morti negli «uccelli raminghi» che picchiano ai vetri appannati rivela il suo significato aperto e la forza dell’immagine iniziale, la sua ferma violenza tempestosa che imprime una eccezionale pienezza alle singole parole, e si ripercuote intera nel finale del distico traducendosi nell’energico riferimento personale in cui la posizione del dativo «a me» dopo «chiamano» par superare la semplice assimilazione al reggimento del primo verbo in un violento salire dell’onda poetica fino all’intensissima forma di dativo personale: «guardano e chiamano a me», che unifica tutto ormai nel rapporto diretto fra il poeta e i morti.

Al loro appello e al loro sguardo affascinante e inquieto risponde l’ultimo distico, in cui il motivo, maturato a contatto di Hölderlin, si svolge e si arricchisce nella risposta ai morti e nel brusco, patetico invito al cuore a placarsi. Un invito che in quella risposta si inserisce audacissimo a movimentare drammaticamente questo dialogo concitato e dolente, ricco di risonanze elegiache e affettuose, accelerato dalla urgenza che proveniva dall’appello dei morti e che si ripercuote nella replica del rassicurante «in breve», per concludersi nel denso, scuro sviluppo di suoni, di direzioni, di parole-immagini funerarie («giú al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò»), tese da un’estrema energia volitiva, perentoria e tutta vibrante fra un sospirato desiderio di rifugio e di riposo da tutto ciò che la vita rappresenta di vile, di deludente, di mediocre, di malvagio e un dolente rimpianto e una prefigurazione di abbandono degli aspetti consolatori della vitalità. Aspetti negati assolutamente dai termini estremi del loro contrasto («giú», «silenzio», «ombra») e che, d’altra parte, anche in questa poesia il Carducci aveva trovato modo di ricordare e vagheggiar sobriamente pur negandoli («non d’amor la canzon ilare e di gioventú») nel quadro della giornata invernale e del suo simbolo cimiteriale secondo un modulo di contrasto essenziale alla sua visione poetica.

A questo risultato cosí deciso e pieno il Carducci giunse attraverso una elaborazione che, pur sulla base di un primo abbozzo sostanzialmente ben delineante i termini essenziali della poesia, indica molto significativamente per noi il procedere della sua espressione, e soprattutto isola bene i punti piú significativi della poesia, il passaggio sempre piú sicuro a quella totale immagine sintetica cosí sua e matura nello scarto dei pericoli di approssimazione, di letterarietà, o di vaporosità o pesantezza.

L’elaborazione di Nevicata si dispone in quattro momenti: due vicinissimi, il 29 e il 30 gennaio, uno piú lontano, 11-18-19-20-21-24 marzo, l’ultimo, quello della stampa, avvenuta il 3 aprile quando la poesia venne pubblicata nella «Rassegna Settimanale» col titolo di Nevata[15].

Nel passaggio dall’abbozzo (che presenta un complesso insieme di varianti) del 29 gennaio alla stesura completa del giorno seguente, la poesia venne consolidandosi con una intensificazione del motivo centrale e con la sostituzione di forme piú schiettamente carducciane ad altre piú deboli, piú esterne, piú letterarie o approssimative.

Al verso 1 «ciel di cenere» diviene «ciel cinereo», addensando la forma precedente piú pesante e distaccata nell’aggettivo ricco di vibrazioni foniche e allusive.

Al verso 3 la sistemazione è definitiva e assimila piú personalmente i chiari echi leopardiani della Quiete dopo la tempesta. Come avviene anche al verso 5 ormai fissato nella sua forza di precisione e allusione musicale immaginativa, tolto l’ingombro della qualifica dell’aer «freddo» che distraeva dalla sensazione del suono delle ore che ora riempie grave e suggestivo tutto il verso.

Mentre al verso 6, ancora cosí insufficiente, il Carducci trovava almeno l’esito squillante («manda» dell’abbozzo diviene «spedí»), che risponde all’esito accentato dei versi 2 e 4: passaggio dall’eco lieta e struggente di suoni vitali a quello misterioso di un primo appello alla visione interiore, anche se in forme d’immagine troppo aperta e direttamente funerea («le ore / passano messagger che la morte spedí»).

Al verso 7, eliminata la tentazione dell’eccesso realistico («beccano») e cambiato l’approssimativo «annebbiati» in «appannati» cosí coerente visivamente alla sensazione attutita già realizzata in quella del suono roco delle ore, il verso si completa metricamente con l’acquisto di un minor distacco tra l’immagine simbolica e il suo spiegato contenuto prima troppo chiuso nel verso successivo. E nei versi 7-8 compare l’enjambement che dà sviluppo piú concreto al passaggio dall’immagine al suo significato simbolico.

Il verso 8 trova il suo finale energico e doloroso, completando il percorso già seguito nelle varianti dell’abbozzo («m’aspettan là giú» variato in «chiaman là giú», e quindi, successivamente, in «invitano reduci», «chiaman reduci a me») e rimandando all’ultimo distico l’intera forza dell’indicazione del luogo cui il poeta è chiamato. E lo sguardo e l’appello dei morti vien meglio scandito, il riferimento personale diventa piú intenso, per non dir poi, nell’ultimo distico, di come la forza perentoria del finale «riposerò» si opponga definitivamente al moto piú blando (anche se forse piú logicamente coerente all’idea della compagnia dei morti) del quasi pacificato «riposeremo là giú».

Molti punti però rimanevano ancora incerti e inadeguati e solo a distanza di mesi un nuovo ripensamento riesce ad avviare la soluzione dell’essenziale passaggio del verso 6 (accanto alla vecchia lezione «passano, messagger che la morte spedí» compare la lezione definitiva, ma con incertezze e cancellature, eliminate solo sulle bozze di stampa), mentre al verso 9 ugualmente si abbinano due lezioni di cui nelle bozze appar compiuta la scelta definitiva: «in breve, o cari, in breve – tu calmati indomito cuore» e (veramente assurda e spia di tentazioni contro cui il Carducci anche in questa poesia ispirata dové lottare) «spengiti, o mente altera, tu calmati indomito cuore» come varianti della prima parte del verso.

Fra le bozze e la stampa gli ultimi ritocchi, e fra questi la felice trasformazione del verso 4 che ne uscí tutto piú mosso e illuminato da quel centrale «ilare», la modificazione del verso 2 che passa ad una forma piú unitaria, ma ancora mancante del «piú» essenziale al ritmo e alla precisazione della scena invernale silenziosa in contrasto con il fervore consueto delle giornate (modificazione quest’ultima apportata nella edizione delle Poesie del 1900) e l’estremo reinserimento del «giú» al verso 10 che il poeta aveva tentato nella terza stesura con una trasposizione sbagliata dei due termini del moto a luogo («giú all’ombra») e che ora trova la sua collocazione e il suo accordo perfetto.

Cosí la poesia raggiungeva il suo equilibrio in tensione, la sua luce, il suo chiaroscuro, la sua musica interiore, la sua squadrata nettezza tutta vibrante di violenza appassionata, la sua virile fermezza.

2.

BALLATA DOLOROSA

Una pallida faccia e un velo nero

spesso mi fa pensoso de la morte;

ma non in frotta io cerco le tue porte,

quando piange il novembre, o cimitero.

Cimitero m’è il mondo allor che il sole

ne la serenità di maggio splende

e l’aura fresca move l’acque e i rami,

e un desio dolce spiran le viole

e ne le rose un dolce ardor s’accende

e gli uccelli tra ’l verde fan richiami:

quando piú par che tutto ’l mondo s’ami

e le fanciulle in danza apron le braccia,

veggo tra ’l sole e me sola una faccia,

pallida faccia velata di nero.

Il Carducci, sistemando i suoi componimenti in Rime nuove secondo un ritmo generale di motivi e di forme metriche, pose questa poesia del 1886 nel terzo libro di quella raccolta, di seguito ad un gruppo di componimenti di intonazione letterario-popolareggiante, in cui al ritmo celere e abbandonato, al linguaggio che, con chiaro compiacimento letterario, tende a recuperare una sorta di preziosa immediatezza di madrigale trecentesco, corrisponde una tematica tardoromantica già iniziata intorno al ’71-72, al contatto con Heine[16] e proprio con lo Heine meno poeticamente valido, ma suggestivo per il Carducci con la sua ironia macabra e dolorosa, violenta e cantata, che rispondeva a certi elementi tetri e sdegnosi del proprio animo sforzati fino alla posa e al rischio di un certo «effetto» cosmico-romantico. Tendenza complicata da componenti erotico-galanti che nella loro voluta spregiudicatezza sfiorano una certa goffaggine, e svolta sul margine piú esterno di una reale disposizione carducciana a sentimenti dolorosi di «tedio», di «disamore» della vita, fino agli esiti assai scadenti di Dipartita del ’78 o di Disperata dell’83, nel cui finale culmina questa immaginosità eccitata e falsa in cui alle suggestioni heiniane si associa qualche eco del pessimismo byroniano (o di certe frettolose e un po’ provinciali frequentazioni di un Baudelaire male inteso):

E sotto il trotto del cavallo nero

rimbomba il mondo come un cimitero.

Che era appunto la retorica di un sincero sentimento doloroso, come certe euforie e «ubriacature d’azzurro» son la retorica, l’espansione troppo facile ed eloquente di un sincero sentimento della vitalità e dell’affermazione di possesso pieno della realtà. Retorica del dolore e di un sincero sentimento cimiteriale, dell’ossessiva, fisica sensazione della morte che, su questa direzione forzata, giunge fino ai morbosi compiacimenti di acri impressioni di disfacimento (sempre in quel libro e in quel gruppo) di Davanti una cattedrale:

Là spunta una sudata

fronte, ed è orribil cosa:

la luce vaporosa

la ingialla di pallor.

Dite: fa fresco a l’ombra

de le navate oscure,

ne l’urne bianche e pure,

o teschi de i maggior?

E certo questa collocazione di Ballata dolorosa subito dopo Dipartita e Disperata (degli strambotti della prima, in una lettera a Lidia del 1° agosto 1878, il Carducci stesso diceva: «sono troppo sciocchi») poté contribuire a sviare l’attenzione dei lettori dal significato e dal valore sintomatico della poesia che esaminiamo, cui essi giungevano col fastidio di una outrance che finiva per nascondere il senso piú serio di quegli sfoghi e con l’impressione divisa di pose psicologiche e di divertimenti dubbi del letterato su facili temi romantici e quindi con l’adeguazione del nuovo componimento, nell’aspetto piú vistoso e superficiale del suo tema e nella sua costruzione metrica, alla tematica e alle forme d’esperienza letteraria di dubbia necessità ispirativa delle poesie precedenti e alla morbosa curiosità cimiteriale di Davanti una cattedrale che subito lo segue.

Per non dir poi in generale dell’immagine di sanità e di classicità del Carducci troppo volgarizzata in un ritratto di robusta compattezza senza screpolature, di fronte a cui gli elementi romantici elegiaci e drammatici del suo animo tanto piú ricco ed inquieto scadono spesso troppo facilmente nella considerazione di un atteggiamento tutto superficiale o di materia psicologica non redenta.

E cosí questa poesia è generalmente passata sotto silenzio, non ha ottenuto l’attenzione che pur essa merita in se stessa e piú nella diagnosi dell’animo del Carducci e del suo piú istintivo sentimento lirico della vita.

Proprio da questo secondo punto di vista questa poesia mi pare un punto di passaggio obbligato per chi voglia spregiudicatamente rendersi conto della reale tensione intima della poesia carducciana, del sostegno che a quella poesia viene da un primo intuitivo sentimento della realtà umana, dell’esistenza terrena, cui il Carducci soprattutto e intensamente guarda.

Si calcoli naturalmente la particolare situazione del poeta in questi anni tardi, la forza crescente della meditazione sulla morte, ma soprattutto si guardi proprio direttamente a quel tema primo del Carducci che qui giunge alla sua espressione piú sensibile e sinteticamente spiegata e che aveva avuto i primissimi segni di consistenza in alcune delle poesie per la morte del fratello Dante, in cui, con fatica, nelle difficoltà dello «scudiero dei classici», che comincia a dubitare della saldezza della sua posizione e dell’adeguatezza dei suoi mezzi espressivi rispetto alla ricchezza sentimentale in lui crescente, affiora un contrasto molto significativo fra il sentimento della pienezza della vita e quello della totale dolorosa esclusione che ne rappresenta la morte.

Quel tema che nella sua elementarità, nel suo tono di sensibilità quasi fisica, ma nella sua forza lirica e personale, si articola poi lineare e vibrante nel contrasto tematico e tonale di Pianto antico per verificarsi come radicalmente presente nella prima stessa esperienza di vita del fanciullo, in quelle Rimembranze di scuola, coeve a Pianto antico, che impostano appunto la contemporanea, inscindibile esistenza di un sentimento vitale tutto terreno e naturale e di un sentimento dell’annullamento, di una esclusione assoluta, di un bipolare e compresente valore della «terra»: terra come terra verde, rigogliosa, primaverile, illuminata dal sole, e terra come terra nera, come terra fredda, come fossa sepolcrale, con gli inerenti contrasti di sole e ombra, luce e buio, calore e freddo, suono e silenzio che troveranno un ultimo incontro sin nel finale di quel congedo dalla poesia e dalla vita che è Presso una Certosa, del ’95.

Non insisterò a lungo qui (l’ho fatto nel primo saggio di questo volume) sul valore generale di quel tema e sul modo con cui la sua centralità va intesa nel dinamico sviluppo dell’esperienza umana e poetica del Carducci, sia nella sua piú diretta espressione (essa stessa naturalmente svolta e variata nelle diverse fasi dello sviluppo carducciano) sia, piú generalmente, come sostegno interno allo spiegarsi delle sue tendenze al paesaggio, al quadro epico-storico, all’impeto giambico, che nel riferimento a quel tema e alla tensione a contrasto dei suoi poli acquistano uno slancio piú profondo, un controllo piú intimo, una vibrazione lirica piú sicura che combatte le tentazioni dell’espansione troppo facile e del preziosismo tecnico fine a se stesso, il pericolo di scambio fra illustrazione e pittura, fra musica e sonorità, o il semplice predominio di abilità eclettica, di accensione occasionale.

Ma qui mi preme soprattutto insistere sul valore che Ballata dolorosa assume nel tardo sviluppo di questo tema e di tutta la poesia carducciana, indicando con tanta evidenza il punctum dolens della sua sensibilità e della sua intuizione vitale che qui trova una espressione di singolare suggestione e chiarezza in un nodo cosí chiaro e saldo dei due poli del contrasto carducciano.

Superata la base di slancio piú enunciativa e anche un po’ approssimativa dell’argomento cimiteriale (del resto Ballata dolorosa non tende ad una elaborazione minuta e meditata quanto all’espressione unitaria e slanciata di un’intuizione centrale[17]), il poeta si immerge tutto nella situazione piú interna, sollecitata dallo stimolo di una immagine-simbolo che pare erompere, con il fascino di un ex abrupto, da una meditazione fantastica che cercava da tempo una soluzione unitaria ed intera, da un assiduo, quasi ossessivo sogno piú sfocato.

Quell’immagine era certo l’immagine di Lidia, della Lidia còlta nel fascino del suo volto pallido e nel velo nero che lo incorniciava anche nel vagheggiamento dell’amore felice. Magari in toni lieti: «ed una fronte bianca ride tra un nero vel» di Anacreontica romantica, del ’73; ma piú spesso in tono di contemplazione nostalgica: «la bianca faccia e ’l bel velo» di Alla stazione in una mattina d’autunno.

Ma già nell’81 in Dietro un ritratto quel «velo nero» aveva assunto la sua simbolicità funeraria («un velo nero copre la terra che lontan fioriva»), ed ora quell’accordo di pallido e di nero si presentava come il volto stesso della morte e della esclusione[18] ormai pronto a frapporsi automaticamente fra il poeta e la sua fruizione della vita proprio nei suoi aspetti piú luminosi e caldi[19].

Si ripeteva in qualche modo, ma con quanta maggiore sicurezza e maturità, la situazione di Rimembranze di scuola, liberata di tutto ciò che di faticoso e di letterario vi era in quella lontana sistemazione di un contrasto essenziale ora divenuto tanto piú intimo, saldamente radicato nella stessa intera esperienza di vita e di poesia del Carducci e svolto entro una sensibilità tanto piú densa e matura, che giunge a intrecciare gli elementi del contrasto, a fonderli in un’unica suprema nota di colore poetico: quella che romanticamente potrebbe chiamarsi la malinconia della luce, la colorazione funerea della vitalità piú fresca e luminosa.

Né si tratta di una trovata lampeggiante ed isolata, né di un «pensiero» staccato dalla poesia o di una notazione diaristica, ché la stessa immediatezza con cui quell’intuizione si consegna nelle rapide forme della ballata letterario-popolareggiante corrisponde ad un moto intenso e fulmineo, ma tutto profondamente legato ad un’articolazione lunga e sofferta di un sentimento lirico che raccoglie energicamente intorno a sé (ben diversamente dai divertimenti e dalle pose delle vicine ballate e madrigali) immagini e movimenti, che non chiedono tanto un’elaborazione minuta quanto un’intensità di generale vibrazione, a preparare energicamente lo svolgimento del fondamentale nucleo lirico-immaginativo.

E tutto tende a questa disposizione di slancio, di immediatezza, di improvvisa rivelazione di un sentimento-immagine che trova di colpo la sua realizzazione sorgendo intenso dal fondo dell’animo e da una lunga macerazione della sofferta sensibilità.

Perciò la poesia presenta anzitutto, ad apertura, l’immagine essenziale ancora enigmatica e la dichiarazione del suo raccordo al tema cimiteriale è svolta con rapida forma enunciativa, quasi frettolosa, ansiosa di passare presto alla spiegazione poetica piú interna, personale e generale.

Utilizzato lo slancio ritmico e immaginativo delle parole finali della prima parte, nella sua ripresa all’inizio della seconda, con un’espansione che di per sé poteva condurre alle forme piú generiche di velleità cosmiche carducciane («cimitero m’è il mondo»), la poesia si rafforza nel lungo, ma energico quadro della natura primaverile, in cui, piú ancor che le particolari immagini, valgono l’energia vitale della sequenza, il succedersi insistente ed energico di immagini poco elaborate, facilmente compendiose, ma estremamente rappresentative e sintomatiche per questa ricerca di immediatezza e di efficace comunicazione. Con un’insistenza che esalta la vita, ma implica quasi un eccesso, proprio di chi sente tutto ciò sull’orlo della perdita e dell’improvvisa esclusione.

Poi, proprio quando la rappresentazione della natura e della vita tocca il suo aspetto piú umano di festa giovanile, con l’immagine radiosa delle fanciulle che in danza apron le braccia (dove il ritmo si fa piú celere e pieno, elasticamente vitale, rafforzato dalla nuova precisazione temporale, e l’immagine suggerisce una pienezza gioiosa e confidente), il brusco erompere del quadro finale, l’improvviso oscurarsi del sole (che ora compendia tutto il fascino dei colori e delle immagini vitali prima presentate), il frapporsi immediato fra il sole e il poeta dell’immagine-simbolo, dànno a questa la sua vera funzione poetica, rivelano tutta la pienezza del suo significato. E, con il ritorno a ballata delle parole iniziali in un rapporto capovolto rispetto al resto del discorso poetico, suggella in forme di immediatezza suggestiva questa poesia che sarebbe errore ipervalutare ma che ancor piú ingiusto sarebbe non riconoscere nella sua efficacia e nel suo valore sintomatico.

Ed è su questo che soprattutto ho voluto richiamare l’attenzione, convinto come sono che la personalità carducciana vada riavvicinata non solo attraverso la importantissima valutazione del pittore di paesaggio, del poeta di leggende epico-storiche, oltreché nell’attenzione al tecnico e al sacerdote serriano delle lettere, ma anzitutto nell’indagine di queste zone piú sensibili del suo animo poetico e della sua essenziale intuizione lirica della vita.

3.

VISIONE

Il sole tardo ne l’invernale

ciel le caligini scialbe vincea,

e il verde tenero de la novale

sotto gli sprazzi del sol ridea.

Correva l’onda del Po regale,

l’onda del nitido Mincio correa:

apriva l’anima pensosa l’ale

bianche de’ sogni verso un’idea.

E al cuor nel fiso mite fulgore

di quella placida fata morgana

riaffacciavasi la prima età,

senza memorie, senza dolore,

pur come un’isola verde, lontana

entro una pallida serenità.

Nella fase della tarda maturità carducciana cui appartiene Nevicata, in questa zona piú sicura di intimità senza enfasi o languore, di autobiografia essenziale trasposta piú interamente in lirica, entro la quale si svolge uno dei cicli piú interessanti della lirica carducciana, questa viene sviluppando alcune delle sue risorse piú autentiche fra impeti di fantasia dolente e nuovi recuperi della memoria in forme piú allusive e suggestive, che nella particolare via del Carducci (una via difficile entro lo sviluppo di elementi romantici verso direzioni piú moderne, anche se senza vera adesione alle nuove poetiche del decadentismo e del simbolismo europeo) conducono a risultati che possono apparire persino sorprendenti per novità a chi sia rimasto troppo fermo all’immagine di una totale massiccia classicità e plastica epicità carducciana.

In una direzione e misura ben sua, in questa tarda maturità cresceva nel Carducci la capacità di una visione piú interna irraggiata fra il disegno lirico di San Martino e l’impeto evocativo piú intenso del frammento dell’81 Gin e ginepri, fra l’ampia visione nostalgica di Sogno d’estate, che reinterpreta nella dimensione propizia del sogno, con un potere evocativo piú luminoso e una forza lirica intera, il ritorno della fanciullezza e dei ricordi piú cari «da una plaga / ove tra note forme rivivono gli anni felici», e il nuovo impulso verso un possesso piú lirico della realtà che giunge alle forme esuberanti e quasi sensuali del vitalismo di Canto di marzo o si risolve nel realismo estroso e idillico di All’autore del Mago. A questa zona ricca e complessa, e vicino soprattutto a Sogno d’estate, appartiene Visione (1-6 febbraio 1883, Verona), anche questa una poesia spesso un po’ sacrificata nell’attenzione dei lettori rispetto al suo autentico valore di limpidezza e di finezza evocativa nella espressione del tema dell’infanzia, che viene portato qui alla sua notazione di immagine piú suggestiva entro una disposizione sentimentale piú alleggerita di ogni vero peso psicologico («senza memorie, senza dolore») e lontana dalle estasi piú dubbie di certi elisi mistico-erotici aperti dalle Primavere elleniche.

Né, d’altra parte, questa disposizione lirica rifiuta la centrale misura di evidenza e di fedeltà al tema e alla parola per una totale suggestione musicale o visiva, pur in un caso in cui certamente il Carducci si spinse assai avanti su di una strada cui lo potevano anche incoraggiare certi vaghi contatti con tendenze della poesia contemporanea, che, piú spesso combattute nelle loro conseguenze «decadenti», potevano venir usufruite in qualche modo come generale sollecitazione allo spirito interno della sua sensibilità, piú irrequieto e ricco di quanto spesso si pensi, e alle sue ricerche di una poesia sua e nuova. Ricerche assai varie e complesse, né unicamente legate alle precise forme programmatiche dell’impegno classico-moderno delle Barbare.

Certo qui il Carducci fu consapevole di una ricerca piuttosto particolare e nuova, se annunciava questo componimento al Sommaruga come «un sonetto che è una novità»[20] e se piú tardi, il 14 luglio di quell’anno, cosí scriveva al musicista Filippo Marchetti, che aveva avuto incarico dalla regina Margherita di musicare quella breve poesia: «Rêverie – era il primo titolo – fu composta proprio con l’intendimento di conseguire un certo effetto estetico specialmente, se non soltanto, per mezzo d’una variata armonica disposizione di sillabe, di suoni, di cadenze»[21].

Ma si noti subito l’incontro di «specialmente» e «non soltanto» che può darci la misura della direzione di questa prova carducciana in cui la ricerca musicale è pur sempre sostanzialmente ancorata al valore intero della parola e alla presenza sicura di un motivo, di un tema suggestivo e ricco di possibile alone fantastico-musicale, ma centralmente preciso e chiaro.

D’altra parte, a precisare come anche questa tendenza a una ricerca poetica piú «moderna» fosse svolta dal Carducci entro la fedeltà e l’attenzione costante alle risorse della tradizione, basti ricordare che il tipo di metro scelto per Visione è pure quello già adoperato dal Parini (e prima dal Rolli) in alcuni sonetti giovanili e particolarmente in quel sonetto XLI delle Rime di Ripano Eupilino che piú tardi il Carducci ricordò come prova delle possibilità pariniane di una poesia «molle e melodiosa»[22].

Solo che il modulo del cosiddetto endecasillabo catulliano (un quinario sdrucciolo e uno piano) viene qui variato in un piú complesso e musicale succedersi di due quinari piani nel primo e nell’ultimo verso della quartina, con al centro due versi composti del quinario sdrucciolo e piano, e, nelle terzine, di due quinari piani al primo verso, della combinazione sdrucciolo-piano al secondo, di un quinario sdrucciolo e di uno tronco al terzo. Donde effetti nuovi e particolari nello sviluppo originale e moderno di quel metro classicistico-arcadico (il filone di metrica classicheggiante e di cadenza cantata settecentesca entro le Rime nuove) e nel suo adattamento ad un motivo che univa limpidezza e suggestione sensibile intima nello svolgimento estremo del tema della fanciullezza risentito nella propizia condizione di una sobria estasi contemplativa, in una luminosità pigra e diffusa, in un pacato e sottile svolgersi della fantasia sognante che sollecita lentamente l’anima e il cuore ad una visione interiore, libera da ogni accento doloroso, da ogni eccessivo peso psicologico, dalla pungente identificazione di ricordi e volti lontani.

Impressioni visive e sonore (la luminosità del tardo sole d’inverno che allieta il verde tenero dell’erba della novale, lo scorrere continuo e monotono dei fiumi al loro confluire, l’incontro di rime blande e ricche di vocali, con la ripetizione del verbo «correva», «correa», che accentua appunto la monotonia continua e affascinante dell’acqua scorrente) si traducono in una disposizione di estasi al cui culmine, non drammaticamente come in Nevicata, ma con agevole svolgimento, si apre la visione interiore a cui l’anima pensosa si dispone.

A questo punto del sonetto si può avvertire il possibile rischio di una certa vaporosità tante volte correlativa nel Carducci a disposizioni «pensose» ed estatiche.

E nella prima stesura[23] vi sono infatti le tracce di una piú aperta impennata eloquente: «Oh idea... Idea vivente nel cui fulgore». Ma l’ispirazione centrale sicura, la misura delicata del sogno, la sottile, ma consistente concretezza di una visione della memoria intima vincono qui questo pericolo e l’«idea», in sé un po’ generica, l’«ale» dei sogni altre volte avvio a forme di astratti rapimenti spiritualistici, attenuano la loro presenza rischiosa in forme piú sommesse, misurate e coerenti al tono generale della luminosità pallida del paesaggio d’apertura e della evocazione piú intensa che lo segue. Voglio dire – e l’osservazione comporterebbe una precisazione assai ampia sul valore anche di certo spiritualismo carducciano piú tardo – che qui pure il riferimento ai sogni e all’«idea» cui l’anima si apre non conduce al visionarismo scenografico o alla vaporosità eloquente di certe dubbie estasi di Rime e ritmi («una di flauti lenta melodia / passa invisibil fra la terra e il cielo» di La chiesa di Polenta) e vale piú efficacemente e poeticamente in direzione di un alleggerimento interiore dell’immagine e del tema del ricordo che non esclude affatto la loro concretezza sensibile ed espressiva.

E ogni dubbio in tal senso scompare quando sulla base di questo misurato slancio di estasi e sulla sollecitazione del quadro iniziale (in cui certo l’insieme è soprattutto funzionale all’apertura della vera e propria «visione» e meno liricamente profonde son le qualifiche del «nitido» Mincio, del Po «regale») sorge la perfetta visione interiore, si schiudono il contenuto lirico del sogno e la realtà poetica e sentimentale dell’«idea», a cui il cuore, nella sua piena accezione di sensibilità, si volge.

Il paesaggio si trasvalora, ma senza brusco distacco, nelle sue qualità di luminosità mite ed immota, nella immagine fantastica di un miraggio senza ansia e senza impeto[24], e da questo il ricordo della fanciullezza si riaffaccia immobile e suggestivo, senza l’agitazione e il particolareggiamento turbatore delle memorie e del dolore[25] (e «senza memoria, senza dolore» è la notazione essenziale di questa mitizzazione poetica del ricordo), e la fata morgana si trasforma in «un’isola verde, lontana entro una pallida serenità».

Esito incantevole, in cui le qualità piú genuine dell’«intendimento» e dell’ispirazione che lo giustifica internamente colgono il loro risultato piú alto, raccolgono entro un giro perfetto dell’immagine e del ritmo nitido, lieve e sensibile, le offerte del paesaggio e della disposizione sentimentale trasposte in una zona lirica piú sottile e pura, di autentica novità poetica (che può far persino pensare a certe forme della poesia pascoliana).

Dove è un avvio anche alle condizioni piú genuine dell’ultima stagione poetica carducciana di quadri sognati e puri, di brevi visioni lineari e vibranti, in cui il poeta esprime ancora la sua piú rara e segreta sensibilità tanto in contrasto, in Rime e ritmi, con l’enfasi e la macchinosa costruttività delle sue ultime odi civili, delle sue senili e confuse velleità spirituali troppo staccate da una base sicura di sensibilità e di meditazione piú privata ed intima, dalla via piú sicura dell’evocazione interiore.


1 Cfr. lettera al Buccola del 1871 (Ep., VII, pp. 22-23) e lettera al Chiarini del 1879 (ibid., XII, p. 184).

2 Donde anche un possibile rafforzamento di pericolosi movimenti di evasione, di oblio in un «carpe diem» erotico colorato di edonismo struggente: «Amiam l’ultima volta» (Autunno romantico): e poi, piú tardi, «sorridete, o belle: / diman morremo» (Su Monte Mario), «Vedi con che desio quei colli tendono / le braccia al sole occiduo: / cresce l’ombra e li fascia: ei par che chiedano / il bacio ultimo, o Lidia» (Ruit hora), «Oh amatevi al sole! Risplenda / su la vita che passa l’eternità d’amore» (Fuori alla Certosa di Bologna) ecc., ecc.

3 Proprio alla fine del periodo piú intenso e sincero di Giambi ed Epodi, quando il contrasto giambico vien rivelando meglio il suo fondo piú intimo, meno legato alla cronaca polemica, son da notare i versi centrali di Per le nozze di Cesare Parenzo del ’70, che indicano la piú profonda aspirazione del Carducci a un mondo di affetti totalmente sicuri e sinceri, contrapposto al mondo della mediocrità e della viltà.

4 Cfr., ad es., Ep., X, pp. 150, 193; XI, p. 91; XIV, p. 65. «Il mio cuore ora è coi morti, coi grandi e coi cari morti». «Gli altri tutti han ragione di vivere, di osare, di tentare, di farsi applaudire o fischiare. E fan bene; bisogna pur vivere la vita. Io no: il mio cuore è coi morti. No: non v’è proprio piú cosa nessuna che mi piaccia: il mio cuore è tutto e solo coi morti. Coi morti mi par di star bene: forse perché i morti non mi rispondono se non come voglio io». «Io, io solo il vecchio cuculo, il vecchio gufo, vedo morire tutti i giovini; e non muoio mai, io. Poveri i miei giovini, i miei belli, i miei cari morti! Il mio cuore è coi morti... comincio ad amare i cimiteri; nei cimiteri oramai è la miglior parte di me stesso» (1877). «Ah Roma di Coccapieller! Ahi! Ahi; tutto quello che fu grande tramonta nel ridicolo! Ah, il mio cuore è coi morti». Dove si può cogliere l’ampiezza di riferimenti che quel grido compendiava.

5 Cfr. Poesie di G. Carducci nei loro autografi, a cura di A. Sorbelli, Bologna 1950, p. XX.

6 Quell’energico «giú» era già risuonato nel grido finale di Notte d’inverno (del dicembre del ’70) nella direzione di un allibito fascino della tomba: «O notte, o inverno, / che fanno giú ne le lor tombe i morti?»

7 Opere, XXIX, pp. 360-361. Do qui il testo di Hölderlin: «Mich verlangt ins bessre Land hinüber, / nach Alcäus und Anakreon, / und ich schlief’ im engen Hause lieber / Bei den Heiligen in Marathon! / Ach! es sei die letzte meiner Tränen, / die dem heil’gen Griechenlande rann, / lasst, o Parzen, lasst die Schere tönen! / Denn mein Herz gehört den Toten an». Si vedano in proposito le fini osservazioni che A. Monteverdi, in un lontano saggio su G. Carducci traduttore («Rivista d’Italia», 15 agosto 1912), fece sulla sintomatica scelta operata dal Carducci fra le strofe di quel componimento di Hölderlin e sul nuovo tono piú impetuoso e bramoso assunto dal testo originale nella traduzione-rifacimento.

8 Che dichiaratamente voleva riprendere un «pensiero antico» suggerendo cosí, secondo l’ipotesi di Valgimigli, il titolo tardivo di Pianto antico (cfr. M. Valgimigli, Carducci allegro cit., pp. 42-43) e indicando la continuità di riferimento del Carducci al tema sepolcrale nella sua peculiare disposizione di contrasto vita-morte, luce-buio.

9 Opere, XXIX, p. 361.

10 Ibid. Mentre questi richiami hölderliniani, pur cosí parziali, mi sembrano evidenti nella maturazione lirica di un motivo poetico che trova intera espressione in Nevicata, assai vago mi sembra il suggerimento per questa poesia del celebre Wandrers Nachtlied del Goethe (cfr. M. Mari, Carducci e Goethe, in «L’Archiginnasio», 1934): «Über allen Gipfeln – ist Ruh’, / in allen Wipfeln – spürest du – kaum einen Hauch; / die Vögelein schweigen im Walde. / Warte nur, balde – ruhest du auch». Comunque un suggerimento svolto in tutt’altra direzione ispirativa e tale anzi da far meglio sentire la peculiarità del tono carducciano tanto piú cupo ed energicamente doloroso, tanto meno aereo e sereno.

11 Da Ave ritorna in Nevicata anche la forma «reduce»: «noi penseremo, o tenero, / a te non reduce».

12 Come i chiari echi della Quiete dopo la tempesta («e l’erbaiuol rinnova... il grido giornaliero»; «e, dalla via corrente, odi lontano / tintinnio di sonagli; il carro stride...») o delle Ricordanze («viene il vento recando il suon dell’ora / dalla torre del borgo») e vaghi riflessi della Sera del dí di festa (il canto dell’artigiano e il silenzio dopo il «suono» e il «grido» del tempo passato, anche se in tutt’altro senso). Che poterono valere nella memoria poetica del Carducci come adiuvanti stimoli della lirica evocazione-negazione di una realtà sensibile-musicale in una nuova dimensione piú energica e meno profonda.

13 Si veda ad es. Ep., IX, p. 20 e p. 322, in cui la descrizione della giornata di neve insiste sul silenzio, sul «suono di vita» rappresentato solo dallo scricchiolio delle foglie secche disgelate dal languido sole e sulla finale abolizione di ogni rumore: «non piú rumore di vita per la città».

14 Si tratta di distici elegiaci in cui gli esametri hanno un inizio dattilico (tranne l’ultimo) e i pentametri finiscono con una parola tronca o monosillaba cosí nel primo emistichio che nel secondo. Il Carducci provò qui – e fu l’unico caso – un metro che il suo scolaro Pascoli aveva usato nella versione dei primi cento versi della Batracomiomachia: un lavoro scolastico riveduto e approvato dal Carducci proprio in quel periodo. Si deve tale precisazione a Manara Valgimigli, Nascita dell’esametro pascoliano, in op. cit. (e ora la nota metrica a Nevicata nel commento alle Odi barbare, Bologna 1958, pp. 287-288).

15 Sostituito nell’edizione delle Nuove odi barbare da quello definitivo, mentre nelle stesure manoscritte della Casa Carducci, cart. III, 110, la poesia era senza titolo.

16 Dietro c’è appunto l’appoggio piú esplicito di In maggio di Heine tradotto nel ’71 e riportato nello stesso libro. Ed è evidente che la scoperta di Heine e dei romantici tedeschi proprio nel ’70-71 fu stimolo essenziale, anche positivamente, per la poesia del Carducci, in un momento cosí importante per lo sviluppo del suo animo poetico, che da quell’incontro ebbe rinforzati la sua vibratilità nervosa, lo slancio al sogno, lo scavo del sentimento e insieme la tendenza al quadro leggendario e storico in movimento, ricco di sfumature e di cadenze (si pensi, appunto nel ’72, a Sui campi di Marengo).

17 L’elaborazione documentata dal manoscritto (ms. della Casa Carducci, cart. III, 37) è minima e conferma una composizione di getto. Le poche varianti, alcune delle quali cancellate subito, non sono molto notevoli e sono state poi scartate nella stampa. Anzi persino una correzione sulle bozze (al verso 3 folla per frotta) venne poi nella stampa sostituita dalla forma originaria. È un caso di resistenza della prima espressione a fiacchi tentativi di correzione e a qualche esitazione di scarsa envergure: al verso 1 la variante «bianco viso spento» che toglieva la suggestione polisensa del «pallido» in una accezione troppo esclusivamente sepolcrale; al verso 2 un «fan» per «fa» piú corretto grammaticalmente, ma insufficiente rispetto all’unificazione voluta dell’immagine a blocco e divenuta simbolo unitario; al verso 3 un piú preciso «vengo» per «cerco», piú preciso, ma meno volontario, e la proposta di aggettivare le porte del cimitero «fredde, nere» con una colorazione che dové apparire inutile data la compendiosità di quella prima parte; al verso 11 un «allor che par» stentato e rallentante; al verso 12 un «tendono, porgono» invece di «apron» tanto piú coerente all’elasticità del ritmo e allo slancio dell’immagine vitale, anche nella sua casta allusione di abbraccio. La poesia era nata come blocco unitario né chiedeva, ripeto, un particolareggiamento troppo minuto. Da notare invece la correzione del titolo che era inizialmente Ballata funebre: era una ripresa di Brindisi funebre e troppo precisava il tema cimiteriale, risolto poi nel significato «doloroso» piú generale dell’essenziale immagine-simbolo. Nell’autografo accanto alla data era poi scritta l’annotazione «ricordanza antica» che può intendersi in relazione alla forma della ballata di ripresa trecentesca (e cosí per Vignetta, che, concepita nell’84, fu riscritta o definita proprio nel giorno di Ballata dolorosa – questa nasceva entro particolari linee di gusto letterario comune ad altre poesie di quegli anni, ma con tanto diversa necessità intima –, il Carducci aveva inizialmente scritto: prova di un madrigale antico), ma che piú fa pensare a quella linea di assidua, antica meditazione sul contrasto vita-morte che motivò il titolo tardo di Pianto antico vicino all’indicazione, nel ’79, dell’elegia Fuori alla Certosa di Bologna come di un’elegia «fatta sur un pensiero antico».

18 Nella lettera in cui il Carducci descrive la sepoltura di Lidia (Ep., XIII, p. 89) il sentimento della morte della donna amata è significativamente espresso nella sua separazione definitiva «dal mondo dei viventi, dall’aria, dal sole».

19 E già nell’anno precedente a quello di Ballata dolorosa il Carducci aveva poco felicemente tentato in una sestina, Notte di maggio, di dare espressione al simbolo autobiografico della immagine di Lidia morta che, sollecitata da una generale rievocazione di care persone scomparse, viene a portare in un luminoso quadro di notturno primaverile l’ombra di un ricordo doloroso che capovolge in elegia i termini paesistici dell’idillio: «Ricorditi: mi disse. Allor le stelle / furon velate, e corse ombra su ’l verde: / e di súbito in ciel tacque la luna; / acuti lai suonarono pe’ colli; / ed io soletto su le flebili onde / di sepolcro sentii fredda la notte» (Rime nuove, V, LXXIII). Ma in quella sestina (e la stessa forma metrica portava ad un compiacimento piú esplicitamente letterario e prezioso) il motivo si diluiva in una disposizione troppo morbida e incerta, come morbido e tenue era il quadro iniziale della serenità notturna.

20 Ep., XIV, p. 108, 11 febbraio.

21 Ep., XIV, p. 172.

22 In Il Parini principiante, pubblicato nella «Nuova Antologia», 1° gennaio 1886, e poi in Opere, XVI, pp. 30-31.

23 In carte del Carducci, Casa Carducci, III, 9.

24 Nella prima stesura il Carducci aveva scritto inizialmente «rapido mite baglior» e «mobile fata morgana». Poi corresse piú coerentemente al motivo ispirativo.

25 Nella prima stesura il poeta aveva iniziato «Ma senza», che chiarisce – se ce ne fosse bisogno – la forza essenziale della condizione lirica entro cui il ricordo della fanciullezza si era totalmente trasfigurato in immagine.